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Raul si fermò a riflettere. “Hai ragione. Potrebbe succedere ancora. Forse è meglio che restiamo insieme per un po’. Però cerchiamo di non farci notare.”
Col bavero alzato per nascondersi il più possibile, Raul fece strada a Riccardo, imbacuccato nella sua sciarpa biancorossa ritrovata arrotolata nella tasca del cappotto, e sgattaiolarono fuori dallo stadio evitando qualunque possibile incontro. Una volta al sicuro da tifosi e giornalisti, Raul chiamò un taxi col cellulare.
“Andiamo in centro: è meglio rimanere lontano da qui per almeno un paio d’ore. Anzi, ho un’idea migliore.”
Chiamò qualcuno della squadra, forse l’allenatore. Con un accento portoghese più marcato - che evidentemente faceva parte della sua immagine pubblica, ma che volendo poteva attenuare – riferì qualcosa di un suo cugino che era venuto a Roma, e avvertì che sarebbe tornato in sede con mezzi propri.
“Davvero ti è venuto a trovare un tuo parente?”, chiese Riccardo al termine della telefonata.
“Sì: sei tu il mio cugino di cui parlavo. Sei molto credibile in questo ruolo, non è vero? Scherzi a parte, tutti i miei parenti sono in Brasile. È più di un anno che vivo da solo in Italia; ma questo paese mi piace molto.”